Google Street View
Nel tentativo di replicare e perfezionare la realtà, il mondo virtuale diventa teatro involontario di scoperte, distorsioni e memorie che sopravvivono altrove, in una cronologia parallela.
Un'esplorazione nei paesaggi virtuali che hanno definito l'identità, le relazioni e i ricordi di un'intera generazione, tra nostalgia, estetiche e nuove forme d'appartenenza. Appuntamento ogni venerdì con Mentally I’m here, la nostra nuova serie.Come tutte le cose che contavano verso la fine degli anni Dieci del Duemila, anche Google Street View viene annunciato con un post su un blog. La data è maggio 2007, il dominio è quello di Google Lat Long e l’annuncio introduce per la prima volta al pubblico un nuovo tipo di tecnologia, in grado di unire immagini fotografiche ad alta risoluzione alla mappatura digitale del mondo reale: “Con Street View è possibile esplorare virtualmente i quartieri delle città, osservandoli e muovendosi all’interno di scene a 360 gradi” – si legge ancora oggi nell’archivio del sito – “è come camminare per strada”. Il post include l’elenco delle prime città in cui la tecnologia di Street View verrà testata, insieme al primo panorama condiviso da Google con i suoi lettori: una veduta del Bay Bridge di San Francisco, con l’oceano da un lato e lo skyline cittadino dall’altro. Le altre città annunciate insieme a San Francisco sono New York, Las Vegas, Miami e Denver.
Dalla periferia di Roma, ritrovarsi sul Bay Bridge è un’esperienza incredibile. Per una che non ha mai viaggiato, se non per andare a trovare i nonni d’estate in un piccolo paesino tra le montagne laziali, l’idea di potersi catapultare, seppur virtualmente, in una città dall’altra parte del mondo ha qualcosa di surreale. E in effetti, è di surrealtà che si tratta: quel ponte, quel panorama, quella strada esistono davvero, ma non li possiamo toccare. Possiamo ammirarli, muoverci al loro interno, ma non siamo veramente lì. Non siamo neanche più qui. Siamo in una terra di mezzo, uno spazio dove la geografia reale e quella virtuale si confondono in un’esperienza che ridefinisce il concetto stesso di presenza.
C’è chi la chiama armchair flânerie, il detour situazionista direttamente dalla scrivania di casa, e chi invece preferisce termini come deriva digitale, neogeografia, o semplicemente flânerie 2.0. Per la maggior parte delle persone, però, non è altro che un modo divertente di esplorare contemporaneamente il web e le strade di città mai visitate. Google lo capisce subito e, accanto agli annunci tradizionali delle nuove aree mappate all’interno di Street View, comincia a pubblicare quiz e indovinelli, lasciando agli utenti del blog il compito di scoprire le mete aggiunte, andandole a cercare direttamente sulla mappa. “Ora posso vedere dove viene prodotto il mio sciroppo d’acero preferito”, scrive Google, ed ecco che i flâneur più attenti trovano le strade a 360 gradi del Vermont. “Il soggetto di La terrazza del caffè di notte di Vincent van Gogh è ora chiaro come il sole”, aggiunge in un altro post, e i vicoli di Arles, in Francia, diventano percorribili dai nostri occhi virtuali. “Solo un terzo del territorio di questo Paese è coltivabile, ma ora puoi esplorarlo tutto in alta risoluzione.” Questa la capiscono in pochi. Ma poi appare: siamo noi. Nel 2008, Street View arriva anche in Italia.
Non sempre è necessario consultare il blog per scoprire il prossimo territorio di cui verrà prodotto un doppione virtuale. Spesso, basta incontrare una delle auto con la caratteristica torretta montata sul tetto, che ospita un sistema di telecamere rotanti a 360 gradi. Con il tempo, scopro che non è l’unico mezzo usato per raccogliere le immagini: a seconda della location, Google utilizza tricicli, barche, motoslitte, perfino dromedari. Di tutti i veicoli, a me è capitato di intravedere solo l’automobile bianca e verde. Ero con i miei amici, sempre nella stessa periferia poco attraente della mia città. Con grande maturità, rivolgiamo il dito medio agli obiettivi panoramici e passiamo il pomeriggio a chiederci se ci abbiano ripreso. Pochi mesi dopo, arriva anche la telefonata di mio nonno. Una macchina strana è appena passata davanti alla finestra di casa, dice, ma lui si è nascosto per non farsi riprendere.
Non siamo gli unici che reagiscono in maniera goffa o persino provocatoria all’invasione da parte di Google negli spazi intimi della nostra quotidianità e, infatti, online iniziano a fiorire progetti di contro-mappatura: ci sono subreddit il cui obiettivo è pedinare le macchine di Street View e ricostruirne i percorsi, oppure rintracciare la propria figura mentre fa qualcosa di bizzarro di fronte alle fotocamere. Nascono siti e account social interamente dedicati a documentare tutte le volte in cui l’occhio onnipresente di Google ha finito per generare un glitch nella realtà, invece di restituirla con precisione: errori di inquadratura, sfasature temporali, figure ambigue o fantasmatiche. Al centro, c’è il paradosso di una tecnologia nata per rappresentare il mondo con fedeltà ma che, nel farlo, finisce per restituire un livello dell’esperienza non-lineare, imperfetto e frammentato.
Se l’obiettivo dell’azienda di Mountain View è contenere il mondo in una riproduzione nitida e perfettamente navigabile, le sue mappe finiscono per raccogliere molto di più. Accanto alle documentazioni goliardiche e polemiche, iniziano a comparire anche quelle nostalgiche, cariche di memoria e, spesso, di dolore. Street View diventa, suo malgrado, non solo un museo degli errori, ma anche della perdita. Addressing Loss Project è una di queste iniziative, una raccolta curata dalla documentarista Nancy Ford che raccoglie screenshot inviati da utenti che hanno ritrovato su Google Street View qualcosa che nel mondo reale non c’è più: animali, persone, oggetti, case, interi paesaggi che sopravvivono su una diversa linea spazio-temporale, sospesi nella terra di mezzo digitale. Scopro il progetto grazie a un articolo del Guardian dedicato a esperienze simili. In un tweet citato nel pezzo, una donna scrive: “I look at my mum’s old house on Google maps street view, the house where I grew up. It says ‘Image captured May 2009’. There is a light on in her bedroom. It is still her house, she is still alive, I am still visiting every few months on the train to Bodmin Parkway.”
Decido di provarci anche io. Digito l’indirizzo e trascino l’omino giallo tra le montagne, al centro del paesino dove vivevano i miei nonni, che cinque anni dopo il passaggio della macchina bianco-verde è stato devastato dal terremoto. Come per magia, mi ritrovo nel 2011 ed è come se non fosse mai successo niente, tutto è ancora intatto. Le stradine, le piazze, i vicoli, le fontane che ho amato e conosciuto meglio di qualunque altra cosa sono esattamente dove le ricordo. Ci sono anche le case dei miei amici e quelle dei miei parenti; il bar della pro loco è ancora in piedi, e così la chiesa, il cimitero. La strada che porta al fiume è libera dalle macerie. C’è anche casa mia. E c’è anche mio nonno, anche se non posso vederlo. Ma io so che è lì. Nascosto dietro la finestra.





ok, è lunedì mattina e ora piango tantissimo
Qualche mese fa ho mandato a mia madre un video in cui registravo lo schermo del telefono e scorrevo una cronologia dal 2009 al 2022 per cercare tracce di mio nonno sul balcone della sua casa: dal 2022 non si vedono più sedie, più tende abbassate, più vita.
Reazione di mia madre: "come hai fatto?" - come se fossi io il mago