McWorld
Un mondo virtuale inventato da una multinazionale, un’isola che non c’è dove utopia e consumo si scambiano le maschere. All’ombra degli archi dorati nasce un nuovo modo di costruire gli spazi online.
Un'esplorazione nei paesaggi virtuali che hanno definito l'identità, le relazioni e i ricordi di un'intera generazione, tra nostalgia, estetiche e nuove forme d'appartenenza. Appuntamento ogni venerdì con Mentally I’m here, la nostra nuova serie.
Due citazioni catturano lo spirito con cui la pubblicità ha iniziato a muoversi online nei primi anni Duemila. La prima è un aforisma anonimo, spesso ripetuto con compiacimento nel settore: “La migliore pubblicità è quella che non sembra pubblicità.” La seconda è attribuita a Bill Gates, durante un summit tecnologico del 2004: “I consumatori non si accontentano più di subire qualunque messaggio venga loro inviato. Dobbiamo trovare il modo di raggiungerli senza annoiarli”.
Entrambe fotografano un cambiamento profondo. All’alba del web 2.0, promuovere un marchio non significa più lanciare uno slogan, ma costruire una presenza nuova: più intima, amichevole, familiare. Il brand smette di essere un semplice garante di qualità o simbolo di uno status per diventare un punto d’accesso a esperienze, relazioni, immaginari inediti. In altre parole: un costruttore di mondi. È in questo contesto che nascono i primi esperimenti di worldbuilding brandizzato: ambienti virtuali realizzati attorno all’identità di un marchio, progettati per attrarre, trattenere, coinvolgere. Il marketing non è più un messaggio: diventa uno spazio tridimensionale in cui incontrare il pubblico. E nessuno lo ha capito prima – e meglio – di McDonald’s.
Il termine McWorld compare per la prima volta negli Stati Uniti a metà degli anni Novanta, come titolo di una serie di spot televisivi firmati dall’agenzia Leo Burnett e trasmessi durante i cartoni del sabato mattina. Le pubblicità mettono in scena la fantasia di un mondo governato dai bambini: un universo di leggerezza e divertimento, diametralmente opposto a quello degli adulti, dove si può vivere di puro tempo libero e mangiare McDonald’s a ogni pasto. “McWorld! Hey, it could happen!” è lo slogan che chiude ogni spot, un grido gioioso che assume istintivamente i contorni di una promessa, il sogno tangibile di un’alternativa: grazie a McDonald’s può accadere davvero. E infatti, poiché in quegli anni gli slogan già non bastano più, McWorld accade.
Con il passaggio al nuovo millennio, McWorld diventa una comunità virtuale dedicata ai bambini e agli adolescenti di tutto il mondo. È uno dei primi MMO – un mondo multiplayer online – progettati interamente da un marchio con l’intenzione di estendere il proprio dominio fisico nella dimensione virtuale, dove gli utenti possono creare avatar personalizzati, esplorare ambienti tematici, completare missioni e partecipare a minigiochi. All’interno di McWorld si guadagnano McPoints da spendere in accessori digitali, si chatta, si gioca, ma soprattutto si vive per la prima volta la fantasia di una società in cui è il brand a dettare le regole. McWorld mantiene le promesse anticipate dagli spot. È un’isola che non c’è, dove gli adulti sono banditi e la geografia è un parco a tema fiabesco e interattivo: ci sono case sugli alberi, castelli principeschi, navi dei pirati, fattorie di animali e un’orbita a forma di Happy Meal che galleggia nello spazio vegliando sui suoi bimbi sperduti.
I minigame e l’esperienza complessiva non sono particolarmente diversi, né migliori, rispetto ai tanti giochi in flash che popolano il web di quegli anni. Ciò che distingue McWorld è la capacità di saziare un desiderio inconscio che prima non sapevamo di avere: non è tanto l’appetito di patatine fritte e McNuggets, quanto quello di un mondo dove il brand coincide con una terra promessa. I sogni di divertimento eterno e spensieratezza – già anticipati dagli spot, dai giocattoli-sorpresa e dall’universo finzionale di personaggi e storie firmato McDonaldland –, si materializzano finalmente in un mondo digitale da esplorare e abitare anche virtualmente. “Children being in charge”, recita la campagna che lancia il videogioco: non sembra pubblicità, e infatti dietro la favola si nasconde la distopia.
McWorld viene chiuso nel 2014. Rinascerà con funzionalità diverse poco tempo dopo, con il nome di McPlay, nel tentativo di raggirare una causa legale intentata dai genitori dei bambini dell’isola che non c’è, che nel frattempo si erano inconsapevolmente trasformati in consumatori assetati di nuovi gadget, nuovi menù, nuove esperienze del marchio. La fine di McWorld, però, non rappresenta la fine dei mondi virtuali costruiti dai brand, anzi. Coincide con l’inizio di una lunga traiettoria – ancora in corso – in cui i marchi smettono di limitarsi a vendere prodotti online e iniziano a progettare veri e propri paesaggi digitali: lo fanno sui social, ma anche attraverso gli advergame e i metaversi, di cui McWorld rappresentava solo un semplice prototipo. Looptopia di H&M, Walmart Land, Vans World, Gucci Town. Sono microcosmi, mondi paralleli dove il consumo si fonde con l’intrattenimento e con la gamification, ma soprattutto con un’idea seducente quanto totalizzante: quella di una realtà alternativa, modellata dai brand, in cui vivere – e desiderare – secondo le loro regole. Per fortuna, si tratta ancora di esperimenti. Nonostante questi immaginari colonizzino ormai la vita virtuale, la strada per trasformarsi in realtà concrete è ancora lunga. Ma come ci insegna la storia McWorld: Hey, it could happen!