Microsoft Bliss
Un’immagine fissa sullo sfondo del computer diventa una finestra su un mondo iperreale, un paesaggio miracoloso e ingannevole, la cartolina retroilluminata che ancora ci seduce con il suo miraggio.
Un'esplorazione nei paesaggi virtuali che hanno definito l'identità, le relazioni e i ricordi di un'intera generazione, tra nostalgia, estetiche e nuove forme d'appartenenza.
Appuntamento ogni venerdì con Mentally I’m here, la nostra nuova serie.
Lo schermo come portale è una metafora ricorrente. Quello del computer, oltre il quale si apre un universo digitale illimitato, ha ridefinito per sempre le coordinate della nostra esistenza, contaminando il reale con il virtuale, il vicino con il lontano, l’ordinario con l’esotico.
Eppure, una delle immagini più rappresentative di questa contaminazione, della capacità dello schermo di aprire finestre su mondi remoti, non nasce dal gesto magico dell’accesso al web – del valico della soglia – ma dal tempo sospeso del computer in standby, dallo sguardo passivo sul dispositivo immobile in attesa del nostro tocco. In quella parentesi tra una navigazione e l’altra, cristallizzato sullo schermo di milioni di utenti, più di vent’anni fa è apparso un paesaggio magnetico e incontaminato, un varco su un mondo perfettamente autentico e artificiale al tempo stesso, che ancora oggi abita la nostra memoria come uno dei simboli più efficaci dell’ottimismo futurista di inizio millennio. L’anno è il 2001, il sistema operativo Windows XP e l’immagine si chiama Bliss, come beatitudine.
La fotografia è stata scattata nel 1996 da Charles O’Rear e ritrae un luogo realmente esistente, lo scorcio di una collina nella contea di Sonoma, in California, immortalato in una luminosa giornata di sole invernale. Il paesaggio è perfettamente armonioso, la luce limpida esalta il contrasto naturale tra le linee morbide della distesa d’erba verde brillante e il cielo azzurro punteggiato di morbide nuvole bianche. Windows la sceglie anche per questo: Luna, il nome del nuovo stile visivo per il sistema operativo XP, si propone di trasmettere serenità e svago disimpegnato; le tinte dell’interfaccia blu e verdi riecheggiano con la natura immortalata da O’Rear, così come gli elementi grafici, tondeggianti e accoglienti come il paesaggio di Sonoma. Alcuni critici la definiscono un’interfaccia à la Fisher Price ma per milioni di utenti è la promessa di un’utopia accessibile attraverso una tecnologia semplice, benevola.
Bliss sembra una visione, e assistervi dal computer retroilluminato è ancora più straniante e incantevole. L’immagine, proiettata dai computer in pausa nelle camerette e negli studi di tutto il mondo, finisce inevitabilmente per suggerire uno standard impossibile per il mondo materiale, intensificato solo dal contrasto tra il paesaggio nel monitor e lo scorcio della vita mediocre a cui si aprono le finestre di casa. Fuori, i colori sono meno intensi, il panorama è caotico, impuro, la realtà meno promettente. La prospettiva offerta dal computer, invece, è inarrivabile, sintetica, vibrante. Il suo fascino è indiscutibile, ma a esaltarlo sono proprio la penombra dell’ambiente domestico, il senso di solitudine dei giorni qualsiasi, la noia tangibile che spinge lo sguardo a trovare conforto sulle lontane colline californiane, che non rappresentano più una meta geografica, ma mentale. L’immagine si trasforma nell’invito a cercare versioni migliori della realtà nello schermo, e in una profezia autoavverante: d’ora in poi i paesaggi saranno considerati più belli attraverso il filtro del monitor, il mondo più interessante una volta ricomposto sotto forma di pixel.
In realtà, il senso di beatitudine è frutto di un incidente. Il miraggio di Bliss nasce da un inganno involontario. Alla fine degli anni Novanta, i terreni tra Sonoma e Napa erano reduci da un disastro agricolo causato dalla filossera, un parassita che aveva decimato i vigneti. Quando O’Rear immortalò il paesaggio, il terreno, spogliato delle sue coltivazioni, era ormai ricoperto da un manto erboso che sembrava surreale nella sua lussureggiante uniformità. La fotografia sembra artefatta, ma non perché è stata ritoccata digitalmente, come ha tenuto a precisare O’Rear più volte. Il paesaggio è rifinito da un senso di assenza. Il vuoto lasciato dalle colture trasforma lo scenario in un luogo incorrotto perché vuoto, ripulito da ogni elemento di realtà.
Ecco allora una nuova metafora. Lo schermo come portale, sì, ma anche come altrove a sé stante, uno spazio dove il tempo si cristallizza e lo sguardo si posa su una realtà intermedia, lontana ma familiare, ingannevole di natura e verissima perché sempre uguale a se stessa. La cartolina retroilluminata di una dimensione nuova, eternamente beata.