Minecraft
Alla fine del nostro viaggio, resta una domanda aperta: cosa rende un mondo virtuale accogliente, vivo e significativo? Un videogioco, più di tutti, sembra suggerire la risposta.
Un'esplorazione nei paesaggi virtuali che hanno definito l'identità, le relazioni e i ricordi di un'intera generazione, tra nostalgia, estetiche e nuove forme d'appartenenza. Appuntamento ogni venerdì con Mentally I’m here, la nostra nuova serie.
Se si volesse provare a dare forma all’infinito universo di bit che costituisce la dimensione virtuale, provando a delinearne margini e confini, si potrebbe partire tracciando una linea immaginaria che divide in due lo spazio. Da un lato, gli ambienti in cui il predominio dei marchi è, se non totalizzante, abbastanza rigido da incanalare ogni forma di creatività e autonomia verso obiettivi di mercato univoci. Dall’altro, i mondi in cui a prevalere è la capacità degli utenti di intervenire attivamente sul contesto. Non sempre in modo virtuoso, e non senza attriti o derive caotiche, ma con un margine reale di iniziativa. Facendo un ulteriore esercizio di semplificazione, potremmo immaginare due principali entità ai rispettivi lati della nostra trincea concettuale: il metaverso di Zuckerberg e Minecraft.
Minecraft nasce nel 2009 come progetto indipendente sviluppato dall’autore di videogiochi Markus Persson (anche noto come Notch) e ispirato a Infiniminer, un titolo poco noto ma fondamentale per il suo approccio ludico all’estrazione delle risorse e per la sua estetica semplice e modulare. È un sandbox game, ovvero un gioco privo di obiettivi definiti, in cui i giocatori hanno massima libertà di azione all’interno di un ambiente generato proceduralmente. Ogni nuova partita si apre su un territorio vergine, un mondo potenzialmente infinito determinato da un seed, una stringa numerica che genera la conformazione unica di quell’ambiente (montagne, fiumi, grotte, deserti, oceani) all’interno del quale il giocatore approda come un vero e proprio colono, chiamato a esplorare, scavare, costruire, coltivare. Può farlo da solo oppure in compagnia, all’interno di server condivisi dove il mondo diventa accessibile a più utenti simultaneamente, configurandosi come un vero e proprio villaggio virtuale. L’atto del mining, ovvero di scavare per ottenere materiali da costruzione e risorse utili alla sopravvivenza, è insieme un gesto elementare, ripetitivo e ipnotico, e il motore simbolico del gioco.
Dentro Minecraft facciamo quello che molti mondi videoludici ci chiamano a fare da sempre: collezioniamo, creiamo, girovaghiamo, produciamo. Abitiamo lo spazio virtuale replicando, in larga parte, la struttura della vita quotidiana: una sequenza di gesti ripetuti, orientati alla sopravvivenza, intervallati da momenti di piacere in cui ci concediamo il tempo di decorare l’ambiente che ci circonda o di lasciarci attraversare dallo stupore di un tramonto o di un paesaggio montano. L’unica differenza sostanziale rispetto alle altre esperienze virtuali è che su Minecraft nulla è predisposto: nessun preset, nessuna starter town, nessuna casa o quartiere predefiniti. Tutto ciò che accade è perché lo facciamo accadere noi. E ciò che facciamo accadere è, senza mezzi termini, spettacolare.
Nell’incalcolabile distesa di tempo accumulato collettivamente dentro Minecraft (in mancanza di statistiche esatte basti pensare agli oltre 300 milioni di copie vendute e ai 37 milioni di ore trasmesse ogni mese solo su Twitch) si sono sedimentate storie che spaziano dall’aneddoto personale alla mitologia digitale. Alcune sono entrate nella storia del videogioco, altre sopravvivono nei commenti sotto i video YouTube: ci sono gli attacchi dei gruppi di griefing organizzato, che hanno distrutto in pochi minuti città costruite nell’arco di mesi, se non di anni; ci sono gli innumerevoli minigame creati dagli utenti all’interno del gioco stesso, e le relative sfide trasmesse in streaming che da anni intrattengono milioni di spettatori, spesso più di quanto riescano a fare molti programmi e reality show delle principali piattaforme. C’è KilloCrazyMan, il primo giocatore ad aver raggiunto le Far Lands – un’area ai margini estremi del mondo generato, dove il codice inizia a rompersi – in modalità Survival, dopo un viaggio durato anni e oltre 12,5 milioni di blocchi percorsi, l’equivalente di più di 12.000 chilometri a piedi. E poi ci sono i racconti sospesi tra leggenda e finzione: il sedicente fratello scomparso di Notch che, si dice, avrebbe infestato i mondi di gioco nei primi anni; la misteriosa macchina dell’immortalità, scoperta e rimossa da un admin silenzioso prima che potesse diffondersi. Soprattutto, c’è l’infinità di tempo speso a replicare il mondo a cui apparteniamo: quello reale e quello immaginario. Le ricostruzioni di Minas Tirith e di Hogwarts, della USS Enterprise e della Death Star, del Taj Mahal, del Louvre, di Times Square o di Kyoto, ma anche città inventate, biblioteche sotterranee, regni volanti e architetture utopiche. Minecraft è l’unico mondo virtuale in grado di contenere, insieme, le piccolezze e le assurdità della vita quotidiana e la proiezione di ogni possibile mondo immaginabile.
Dall’altra parte, il metaverso di Zuckerberg. Quando l’imprenditore lancia la sua versione nel 2021, rinominando Facebook in Meta e promettendo un futuro immersivo in cui lavoro, intrattenimento e relazioni sociali si sarebbero svolti all’interno di ambienti virtuali tridimensionali, l’annuncio arriva in un contesto già provato da quasi due anni di pandemia globale. Il mondo materiale vive in uno stato di sospensione temporanea e molte delle sue funzioni sono migrate online. Il metaverso, in questo scenario, non si propone come spazio di evasione videoludica, ma come una vera e propria infrastruttura: un ambiente alternativo da abitare con continuità. Le promesse sono ambiziose e vengono sostenute da investimenti miliardari. Nei mesi successivi, brand come Nike, Gucci, Balenciaga e McDonald’s si affrettano ad aprire i propri avamposti virtuali, mentre tech companies e imprese multinazionali iniziano a progettare i propri spazi per le attività aziendali. All’inizio c’è una certa partecipazione, in alcuni casi persino entusiasmo. Ma l’interesse cala rapidamente, e la bolla si dissolve nell’aria. Mentre la risposta iniziale dei marchi è accesa e propositiva, l’adozione da parte del pubblico si rivela molto più tiepida delle aspettative: i numeri di Horizon Worlds, la piattaforma ufficiale di Meta, sono rimasti modesti sin dal suo lancio, contando poche centinaia di migliaia di utenti attivi mensili, ben al di sotto degli obiettivi interni. Anche i brand hanno smesso di parlarne: niente più NFT esclusivi, abiti digitali eccentrici, eventi immersivi o esperienze di gamification per le community online.
Quale insegnamento è possibile trarre dalle storie di questi due mondi, posizionati ai poli opposti dello spettro digitale? Da un lato, un ambiente imprevedibile, potenzialmente infinito, indomabile, e gioiosamente attraversato da eventi che – pur nella loro virtualità – rievocano ciò che ci è più caro dell’esperienza umana: il piacere della scoperta e della creazione, la bellezza del gioco, la forza delle interazioni sociali spontanee all’interno di una dimensione che accoglie il caos come parte integrante del suo ordine. Dall’altro, un mondo in cui ogni elemento è preconfezionato, controllato, misurabile. Un mondo che non è mai stato veramente scelto dagli utenti, ma progettato per loro in anticipo. Uno dei due mondi è destinato a restare vuoto. L’altro, con tutte le sue storture e le infinite trasformazioni che ha subito nel corso del tempo, continua invece a rappresentare una delle forme più intense, vitali e drammatiche della vita online.
Il finale di Minecraft non coincide con una vera e propria chiusura del videogioco, ma con un messaggio. Una volta sconfitto il drago finale, il giocatore viene accolto dall’End Poem, un testo lungo e surreale, scritto dal drammaturgo Julian Gough nel 2011 su commissione di Notch. Il poema parla direttamente al giocatore, riconoscendone l’esistenza, la coscienza, la capacità di immaginare. Ricorda che il gioco non è la realtà, ma che può aiutarci a comprenderla. Che la libertà conquistata in uno spazio digitale può avere un’eco nel mondo reale. Che creare, esplorare, abitare, fallire, ricominciare sono, dentro e fuori dallo schermo, tutti modi di stare al mondo. E questi modi, aggiungerei io, vanno riconosciuti, valorizzati, protetti e coltivati. Perché dall’altra parte della frontiera, qualcuno sta lavorando per toglierceli.
And the game was over and the player woke up from the dream. And the player began a new dream. And the player dreamed again, dreamed better. And the player was the universe. And the player was love
You are the player
Wake up