Croft Manor
Il videogioco come rifugio, dove la morte non esiste e il gameplay è puro svago, tra flânerie disimpegnata e sperimentazioni casuali. Con un maggiordomo a farne le spese.
Un'esplorazione nei paesaggi virtuali che hanno definito l'identità, le relazioni e i ricordi di un'intera generazione, tra nostalgia, estetiche e nuove forme d'appartenenza. Appuntamento ogni venerdì con Mentally I’m here, la nostra nuova serie.
“Quando ho costruito la cella frigorifera non pensavo che la prima cosa che i giocatori avrebbero fatto sarebbe stata chiudere il maggiordomo al suo interno” dichiara Heather Gibson in un’intervista, pubblicata su Tumblr (!) nel 2014. Gibson è una delle principali designer della prima trilogia di videogiochi Tomb Raider ed è anche la creatrice del livello di addestramento ambientato nel maniero di proprietà della famiglia di Lara, un rifugio sempre pronto ad accogliere i giocatori nelle pause tra un’avventura e l’altra: Croft Manor.
Il nome del maggiordomo, invece, è Winston e la prima volta che appare nel videogioco è il 1997, con l’uscita di Tomb Raider II, dove il livello ambientato nella tenuta viene ampliato e arricchito di attività. “Volevamo creare l’impressione che Lara provenisse da una famiglia aristocratica”, racconta la designer, “e il maggiordomo serviva ad aggiungere credibilità”. La casa è enorme, labirintica, e Winston ci segue ovunque. Tra le mani fragili e rugose stringe un vassoio su cui tintinna precario un servizio da tè, uno dei pochi rumori che spezzano il silenzio nell’immenso maniero di campagna, insieme ai brontolii bassi e indistinguibili che provengono dalla sua vecchia figura ingobbita e a qualche sommessa flatulenza, sempre sua. Forse anche per questo lo odiamo.
La prima volta che incontro Winston in realtà la casa è quella di Tomb Raider III. È un videogioco a cui arrivo tardi, riesco a farmelo comprare dai miei genitori in versione tarocca da uno spaccio di fronte al supermercato; la custodia ridotta a un foglio stampato in bianco e nero inserito in una tasca di plastica sottile. I livelli non mi piacciono, muoio subito, sbranata dalle tigri o schiantata al suolo dopo un terrificante volo di decine di metri. Per me il personaggio di Lara è ingiocabile: troppo rigido, goffo, innaturale nei movimenti. Nella casa, però, le cose possono essere prese da una prospettiva diversa. Non ci sono predatori feroci in agguato, il rischio di incontrare un nemico è inesistente. Dentro Croft Manor la morte, semplicemente, non esiste.
Al suo posto c’è Winston. I suoi brontolii ci raggiungono in ogni angolo della tenuta, che a rivederla oggi su YouTube sembra tutta un pixel: i libri della biblioteca sono blocchi geometrici omogenei e compatti, la piscina è un cumulo di quadratini di differenti tonalità di azzurro, il giardino-labirinto un assemblaggio di blocchi geometrici. La memoria, però, contiene immagini differenti: ricordi in alta definizione delle ore trascorse ad ammirare il dorso istoriato della collezione di libri della famiglia Croft, a nuotare circondata dalla variopinta fauna dell’acquario sotterraneo, a fantasticare nella stanza dei tesori. E, ovviamente, a imprigionare Winston nella cella frigorifera.
Non c’è nulla nelle dinamiche del livello, nell’architettura della casa o anche solo nella personalità di Lara Croft, a suggerire ai giocatori la possibilità di un simile scherzo. Ma tutti lo fanno. “I just love how everyone around the world pre-internet came up with the same idea” scrive un utente sotto un video su YouTube che immortala il famigerato trabocchetto.
Magari non succede subito, potrebbe addirittura arrivare dopo diverse sessioni di esplorazione, ma alla fine l’idea si insinua in ognuno di noi. È l’abulia della ricchezza che si tramuta in violenza gratuita? È l’incapacità di Winston di comprendere che non vogliamo essere seguite in ogni stanza? È l’innata creatività del giocatore, che lo spinge a reinterpretare lo spazio di gioco andando oltre le intenzioni dei suoi programmatori? Non lo sapremo mai.
In ogni caso, il maggiordomo non ce ne fa una colpa. Nel sequel Rise of the Tomb Raider: Blood Ties troviamo una vecchia lettera di Winston indirizzata a nostro padre: “Più tardi nel corso della giornata, Lara mi ha teso una trappola... nella cella frigorifera, di tutti i posti. Neanche il tempo di accorgermi di cosa stava succedendo e mi sono ritrovato chiuso dentro. La signora Sheffield mi ha scoperto un’ora dopo, tremante e un po’ infastidito”. Winston non è arrabbiato, anzi. Confida a nostro padre il sospetto che ci sentiamo molto sole, e probabilmente ha ragione.
Per realizzare Tomb Raider II ci è voluto all’incirca un anno. Winston, invece, è stato un’aggiunta dell’ultimo minuto. Un’intuizione del momento ha dato vita a un’esperienza che ha unito una generazione attraverso i decenni.